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La construzione del Ghetto | ||||
Por Silvio Ciappi |
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Appunti
di criminologia critica |
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Ho
visto un uomo matto È
impressionante come possa fare effetto Un
uomo solo dimenticato, abbandonato, dietro
le sbarre sempre chiuse di un cancello. Giorgio Gaber L’assillo
della sicurezza Una delle parole prepotentemente
catapultate, a inizio millennio, sulla testa degli italiani, nei
discorsi dei politici, nei progetti degli operatori sociali, nei discorsi degli
intellettuali, è il termine sicurezza (o il suo contrario, insicurezza). Il
vocabolo che fino a qualche anno fa rimandava a universi di
significato affollati di immagini di porte blindate, videocamere a
circuito chiuso, vigilanza notturna – insomma tutte cose che avevano a che
fare con il tono minore e domestico dell’ordine pubblico – da qualche
anno è invece assurta a metafora di un impellente bisogno di
rassicurazione. Cerchiamo di sondare il fondamento
ideologico del termine, di comprenderne il suo «paradigma» o
«connotazione». Il criterio dell’insicurezza (o v
u l n e r a b i l i t à o i n
c e r t e z z a o f l e s s i
b i l i t à), rimanda a orizzonti di significato e a
parametri interpretativi mutati. Il bisogno di sicurezza è figlio della decostruzione
dei miti della modernità e soprattutto della grammatica e
della sintassi normativa delle architetture ideologiche classiche e positiviste. Il parametro dell’insicurezza
costituisce una sorta di virus che destruttura le grammatiche scritte
dello Stato e del Diritto sostituendole con le grammatologie e le narrazioni
orali del Soggetto. Insomma il termine sicurezza fa perno su un
ritrovato concetto di indivi- dualità, di progettualità locali a
dispetto di prospettive globali, di una nuova episteme
che rimette in gioco il soggetto e lo pone al riparo in un mondo disincantato, dove si sono
perse le tracce delle ideologie tradizionali e dove il sentiero
dell’emancipazione è affidato unicamente alle sorti dell’individualità e di
comunità locali spesso impermeabili tra loro, che si compenetrano, si
oppongono, si aiutano reciprocamente pur continuando a restare se stesse
(cfr. Maffesoli 1988). Anche le scienze
socio-criminologiche, alle quali devo molto in quanto criminologo – termine
barbaro perché porta con sé una pletora di polimorfismi semantici – hanno
ormai iniziato a cambiare statuto epistemologico: hanno smesso
di indossare gli abiti del chierico traditore e di interrogarsi sui perché
delle cose. L’apertura delle scienze criminali al tema
dell’insicurezza ha infatti determinato la nascita di due approcci distinti. Il
primo, neoconservatore, teso a trasformare le scienze criminali in
tecniche o management di riduzione del rischio, in tecnica attuariale la
cui finalità è lo studio dei rischi posti da determinate comunità (criminologia
attuariale). Il secondo porta invece a una criminologia che
riscopre il sapere etnografico, etnometodologico, qualitativo. Sotto
tale approccio, l’insostenibile leggerezza
dell’imponderabile, del qualitativo, del microsociologico e dell’informale
narratologico ha aperto brecce interpretative inusuali (criminologia
liquida). È opinione comune che negli ultimi
dieci anni siamo passati (Squires 1999; Gilling 1999) in molti
paesi occidentali dal paradigma della prevenzione del crimine a
quello della sicurezza collettiva. Il paradigma della prevenzione vedeva
innanzitutto lo Stato come ente monopolizzatore dell’ordine
pubblico. L’uso della forza e delle misure di contenimento diveniva
questione statale. Ragion per cui la prevenzione e repressione del
crimine rientrano nelle competenze dello Stato, che investe non solo il
momento della criminalizzazione primaria ma anche quello degli
strumenti di prevenzione e t u t e l a . Negli ultimi anni, al paradigma «centralista»
della prevenzione si è invece affiancato il paradigma
della s i c u r e z z a. Il paradigma della sicurezza diviene modello
locale, vicino alle aspettative dei cittadini e non astrattamente vincolato a
politiche generali (general pol i c i e s)
di trasformazione dell’uomo e delle istituzioni sociali. Lo sviluppo del sicuritarismo – brutto
neologismo – è dovuto anche al fallimento parziale delle politiche di w
e l f a r e e di ammodernamento dei servizi assistenziali,
scolastici, familiari, lavorativi, durante gli anni Ottanta. La crisi del welfare
ha anche portato a un ripensamento delle strutture penitenziarie e delle
funzioni di controllo sociale del dirit- to penale. La funzione della penalità
e la retorica del trattamento penitenziario si sono spostate gradualmente
dall’ottica preventiva a quella della sicurezza. Come
sostenuto da Pavarini (1995) l’obiettivo perseguito dalle agenzie di controllo
sociale mira sempre di più all’implementazione di strategie di controllo su
specifici gruppi sociali. Ma non solo l’intero sistema di
controllo penale è caratterizzato da un obiettivo di efficienza e di
controllo sociale: «La gestione amministrativa delle pene parla ormai un’altra
lingua: non più quella di punire gli individui, ma di gestire
gruppi sociali in ragione del rischio criminale; non più quella
correzionalistica, ma quella burocratica di come ottimizzare le risorse
scarse, in cui l’efficacia dell’azione punitiva non è più in ragione dei telos
esterni al sistema (educare, intimidire) ma in ragione di esigenze
intrasistemiche (neutralizzare, ridurre i rischi)»
(Pavarini 1995, p. 93). Il cambiamento di paradigma ha
riflessi quindi sulla gestione amministrativa della pena. Il
passaggio è dalla centralità del trattamento individualizzato, fondato
sull’osservazione scientifica della personalità, alla centralità della
valutazione del rischio criminale (risk
management) di particolari gruppi criminali. La discrezionalità della magistratura di sorveglianza
nel concedere benefici è sempre più legata alla valutazione dei
fattori di rischio legati all’appartenenza a determinati gruppi criminali: «Una
discrezionalità… che non si illude più di fondarsi
sull’osservazione scientifica della personalità… ma che àncora sempre più la propria
decisione a un calcolo statistico dei rischi per popolazioni criminali
e gruppi sociali devianti, piuttosto che affidarsi alla sorte
nello “scommettere sull’uomo”» (Pavarini 1994). Non solo: il ruolo della criminologia
all’interno delle agenzie di controllo è oggi in fase di
mutamento. La criminologia e i criminologi operanti all’interno dei sistemi di
controllo non hanno più la funzione di interpretazione delle cause che
avevano nel paradigma preventivo. La criminologia preventiva doveva di
identificare modelli causali di interazione devianti,
studiare le caratteristiche dell’individuo delinquente, fare del penitenziario e
del delinquente i referenti empirici della ricerca. La
criminologia è oggi sempre più tecnica di controllo sociale, tesa a definire
modelli di gestione della criminalità finalizzati a ottimizzare
l’efficienza del sistema. Il paradigma dell’insicurezza
convoglia in sé i temi più vasti dell’incertezza, della solitudine dell’uomo globale,
di una modernità «liquida», in cui si sono fuse le
vecchie architetture del passato e le vecchie certezze di cui esse erano
rappresentazioni simboliche. Infatti da almeno una decina di anni il
sapere criminologico si è aperto alle teorie del controllo sociale
informale, alle teorie della deterrenza condizionale, in cui vengono
enfatizzati i concetti di comunità (ter- mine assente nell’architettura
della modernità), vulnerabilità, mediazione, situazionismo. Infatti, spesso i
ricercatori e gli studiosi dei problemi sociali fanno numerosi
riferimenti ai teorici della postmodernità. Non si indica più nell’ente
astratto, lo Stato, l’unica capacità di mantenimento, controllo e
ricomposizione dell’ordine sociale, ma si affida alla comunità,
al soggetto la capacità di autoregolamentarsi; non è più dall’ente astratto che
discendono le norme di comportamento, ma è dal basso (dalla comunità, dal
singolo, dalle collettività) che nascono nuove parole d’ordine,
nuovi percorsi di integrazione e ricucitura del conflitto. Se analizziamo, ad esempio, i
risultati della ricerca internazionale sul tema, ci rendiamo conto che la
dimensione della sicurezza e l’ideologia del risk
management hanno contaminato gli stessi studi scientifici, creando le fondamenta
della cosiddetta criminologia attuariale, ovverosia di una penologia che
riesuma i vecchi concetti di classi pericolose e di pericolosità
(cfr. Melossi 2002). La rinascita delle classi pericolose va di pari
passo con l’affermazione secondo la quale il successo delle politiche di
integrazione e di contrasto alla violenza e al degrado urbano e
sociale risiede nella possibilità di costruzione di una comunità coesa intorno a
valori predefiniti. Non solo nei pionieristici lavori di
Hirschi, ma anche in quelli di altri studiosi (come Braithwaite, Samson, Laub,
Tittle, Logan), l’efficacia dei programmi di prevenzione del crimine
sembra affidata prevalentemente a strategie comunitarie. I legami
personali del soggetto con la famiglia, le comunità sociali di
riferimento, il lavoro creano quello che i criminologi chiamano il «controllo
sociale informale». Si reputa in sostanza che la capacità, la
voglia o il semplice interesse a mantenere legami sociali e individuali
soddisfacenti abbiano una maggiore efficacia deterrente della semplice
minaccia legale della punizione. Riteniamo però che il comunitarismo
rappresenti l’ultima tappa d’arrivo delle teorie
criminologiche e sociali e che il tempo dei formidabili ottimismi sia terminato, e che siano
quindi da riscrivere i concetti di «comunità» e «società». In sostanza sono proprio la mancanza
e il bisogno di comunità chiuse il segno distintivo del nostro
tempo, e comunità è sinonimo di «ambiente sicuro», di ristretto
spazio o quartiere protetto da ladri e da ogni intrusione esterna,
sinonimo comunque di isolamento e separazione. L’impossibilità di
creare una comunità aperta genera allora il «ghetto», caratterizzato
dalla politica dell’esclusione. Ghetti di lusso e sfavillanti dei ricchi
quartieri del centro, ghetti poveri e violenti delle periferie urbane. Criminologia
e territori di confine: la
criminologia «liquida» di Zygmunt Bauman La
libera elezione dei padroni non abolisce né i padroni né gli schiavi.
La libera scelta tra un’ampia varietà di beni e di servizi non
significa libertà se questi beni e servizi alimentano i controlli sociali
su una vita fatta di fatica e di paura – se cioè alimentano l’alienazione.
La riproduzione spontanea da parte dell’individuo di
bisogni che gli sono stati imposti non costituisce una forma di autonomia:
comprova soltanto l’efficacia dei controlli. Herbert Marcuse Alcune tardive traduzioni, assieme
alla pubblicazione di lavori recentissimi, presentano ormai
ampiamente in Italia Zygmunt Bauman, uno dei più interessanti
osservatori contemporanei della società postmoderna e delle sue
patologie. Il punto sul quale Bauman si sofferma è proprio il concetto di
«comunità». Almeno da Tönnies in poi, le scienze umane
sono consapevoli che gli ingredienti della Gemeinschaft,
la comunità, sono diversi da quelli della Gesellschaft,
la società. La comunità è un rapporto reciproco sentito dai partecipanti, fondato su una
convivenza durevole, intima ed esclusiva. La vita comunitaria è sentita:
implica comprensione, consensus; è durevole, intima (confidenziale)
ed esclusiva; al contrario, la vita societaria è
razionale, passeggera, pubblica. E ancora, afferma Tönnies, la comunità è un’associazione
organica, mentre la società è un’associazione meccanica,
artificiale e recente: è il pubblico, il mondo. Una persona si trova dalla
nascita in una comunità con i suoi, legata a essi nel bene e nel
male, mentre si va in società come in terra straniera: in società gli
individui rimangono separati nonostante tutti i legami. Bauman ci parla allora di un
sentimento diffuso e sintomatico dei tempi: il ripiegamento nella
comunità, di fronte alle incertezze societarie e all’offuscamento
identitario. Adattando le concettualizzazioni di Bauman al nostro specifico campo
d’indagine, l’estrema vulnerabilità che oggi più di ieri
colpisce l’individuo nelle sue sfere di attività (la famiglia, la scuola,
il lavoro) influenzano prepotentemente anche le sue scelte di ordine
deviante. E ciò avviene per un motivo principale: la forte influenza
che il lavoro, la vita lavorativa, una delle forme più importanti
dell’uomo come politichèn zoòn ha sul resto delle relazioni sociali. Flessibilità
del lavoro e insicurezza Se nella concezione moderna il lavoro
rappresentava il principale strumento di autoconsapevolezza
critica del soggetto e di costru- zione della propria morale sociale
– perché era all’interno dei luoghi di lavoro che si formavano identità,
senso di appartenenza, consapevolezza politica ecc. – la concezione
attuale del lavoro vede l’individuo in preda a una forte incertezza
esistenziale. Parafrasando Bauman possiamo dire che, se l’operaio
degli anni Settanta poteva pensare di svolgere tutta la sua vita
lavorando in Fiat, adesso suo figlio sa che quel lavoro sarà uno dei tanti
che dovrà affrontare nel corso della sua vita. Ecco che elementi di
insicurezza hanno pervaso per primi il mondo del lavoro e lo spettro ha
preso il nome di «flessibilità», «precarietà », «atipicità», termini
strettamente imparentati con quello più generico di insicurezza. L’uomo della modernità, operaio,
dirigente o professionista che fosse, aveva concettualmente un
progetto, cioè un percorso di vita strutturato davanti a sé, un
percorso di emancipazione personale, economica e culturale. La fabbrica,
il luogo di lavoro, costituiva una sorta di metafora epistemologica, era
il luogo dove si riflettevano le contraddizioni sociali e nel quale
nascevano i bisogni e i desideri di emancipazione, di liberazione dalla
necessità e di affrancamento. L’orizzonte della modernità
costituiva un orizzonte lineare, un percorso che andava dal meno al più, un
incessante «tendere a». Adesso assistiamo invece alla piena
diffusione del cosiddetto lavoro
informale, che non corrisponde alle norme
sociali consuetudinarie e a quelle determinate politicamente. Il
lavoro informale non è dunque tutelato dal diritto del lavoro, né
sotto il profilo sociale, né sotto quello contrattuale, il rapporto di lavoro
è precario, il reddito non regolare e non assicurato, e normalmente più
basso che nel settore formale. Questo tipo di lavoro è aumentato
enormemente nei decenni scorsi, in particolare dalla crisi
della metà degli anni Settanta. (Sassen 1997). Il modello neoliberista del lavoro
informale segna una drastica inversione di rotta rispetto al
modello fordista del lavoro. Come sappiamo, il modello tayloristico di
suddivisione del lavoro che raggiunse l’apice all’inizio del XX secolo
lasciò gradualmente il posto al fordismo, caratterizzato dalla
coniugazione dell’organizzazione scientifica del lavoro a un tentativo
di aggregazione in stile comunitario dei propri dipendenti: «Henry Ford
prese la storica decisione di raddoppiare il salario ai propri
operai, il suo obiettivo era quello di legarli a doppio filo alle sue
fabbriche, vale a dire garantire loro qualcosa di più del puro e semplice
sostentamento ottenibile presso qualsiasi altro datore di lavoro»
(Bauman 2003, p. 35). Il modello fordista, ci informa Bauman, trasmigrò
velocemente dalla sua mera applicazione industriale, per improntare un nuovo
modello di comunità: «I villaggi modello sorti ai margini
delle fabbriche esibivano abitazioni decenti, ma anche
cappelle, scuole elementari, ospedali e comfort sociali di base, e tutto su
indicazioni dei proprietari di fabbriche, al pari del resto del complesso
produttivo. La scommessa era ricreare una comunità incentrata sul
luogo di lavoro e, per converso, fare dell’impiego in fabbrica
l’occupazione di “tutta la vita”» (Bauman 2003, p. 36). La situazione adesso è cambiata: la
preponderanza del lavoro informale, che sembra assorbire
almeno il 50% in Italia del mercato del lavoro (Gallino 2003), provoca un
diverso attaccamento non solo alla fabbrica ma anche alla comunità:
«Anche gli uffici e le fabbriche più venerande e orgogliose del loro
glorioso passato tendono a svanire dall’oggi al domani e senza
lasciare traccia; lavori ritenuti inossidabili e indispensabili si dissolvono di
punto in bianco; specializzazioni un tempo cercate col lanternino oggi
risultano invendibili e la routine del lavoro va spesso a
farsi benedire ancor prima che si abbia avuto il tempo di assimilarla»
(Bauman 2003, p. 45). La condizione dell’uomo nella
surmodernità è essere dislocato trasversalmente. Al progetto si
sostituisce una concezione della vita in chiave più strettamente
individuale, nella quale è il soggetto stesso che diviene progetto e tende quindi a
non utilizzare né il lavoro né l’emancipazione come strumenti per
la propria auto-affermazione: incertezza diviene sinonimo di
riscoperta della forza dell’individualità. Ecco che il concetto di vulnerabilità
acquisisce una sua pregnanza non solo materiale ma anche
ideologica, ed è da questo punto di vista che i concetti di
ineluttabilità, predeterminazione, prevedibilità sfumano per lasciar
posto a una incertezza carica di progettualità. È qui che la parola
insicurezza ha trovato la sua radicalizzazione più forte ed è proprio così che è
divenuta amalgama di quelle comunità. Un
esempio. Evoluzione e significato del carcere Veniamo adesso a un altro tema
affrontato da Bauman e assurto a metafora epistemologica: il
carcere. L’atto di incarcerazione, ovvero la forma più radicale di limitazione
dello spazio, ha rappresentato un modo viscerale e istintivo di
reagire alla diversità. La diversità, si afferma, si ha quando l’altro viene
confinato in una situazione caratterizzata da mancanza di familiarità
attraverso, ad esempio, l’imposizione di confini spaziali. Viviamo sempre
di più tra persone che non conosciamo e che non conosceremo
mai. È ovvio allora che quando manca la familiarità, le
richieste di punizione del colpevole prevalgono sulla preoccupazione di
correzione del danno. Ecco che il carcere diviene la risposta
necessaria al più generale sentimento di non familiarità. Le nuove prigioni
non sono un luogo coatto di disciplina, sono contenitori che assicurano la
completa immobilizzazione dei nuovi esclusi, in sintonia con
quanto avviene nei non-luoghi delle periferie urbane e nei
quartieri dormitorio. Accanto all’espansione urbanistica delle città stiamo
assistendo a un boom delle costruzioni penitenziarie e del numero di persone
sottoposte ai controlli della giustizia penale. In alcune
città degli Stati Uniti, ad esempio nel distretto di Anacostia di
Washington DC, dove si concentra la maggior parte della popolazione
povera e nera di Washington, metà dei maschi tra i 16 e 35 anni è in
attesa di giudizio o in prigione, o agli arresti domiciliari o in libertà
vigilata (Zucchini 1997). Il carcere Usa non solo si è espanso
e riempito, ma ha svolto una funzione di agenzia di controllo
diffuso. Nei confronti di intere categorie di persone (proletariato nero e
ispanico, microcriminalità femminile e minorile ecc.) si è assistito a un
uso massificato del carcere basato non su un incremento dei
reati, ma su considerazioni relative all’allarme sociale. Si va dal
carcere di massima sicurezza, per i «nemici dello Stato», a quello
puramente contenitivo, passando per i diversi gradi del «trattamento»
sociale della diversità: i ghetti metropolitani, la detenzione amministrativa e
preventiva, le terapie coatte in comunità, le strutture
ospedaliere e psichiatriche, l’affidamento ai servizi socio-assistenziali, i
sistemi diffusi di videosorveglianza e tecnosorveglianza, che hanno lo
scopo di sottoporre un numero crescente di soggetti a forte
controllo sociale. E il carcere in un mondo globale si
apre alle regole del mercato globale, alle speculazioni
finanziarie e di borsa, non si limita unicamente a sorvegliare e punire ma diventa business:
«Il tema è semplice. Le società di tipo occidentale si
trovano ad affrontare due problemi principali: la ricchezza è
distribuita ovunque inegualmente; così pure l’accesso al lavoro
retribuito. Entrambi i problemi sono in potenza fonte di conflitti. L’industria del
controllo del crimine è adatta ad affrontarli entrambi. Questa
industria da una parte fornisce profitto e lavoro e dall’altra produce il
controllo di coloro che altrimenti potrebbero disturbare il processo
sociale» (Christie 1997, p. 8) A fianco del carcere pubblico prende
piede sempre più l’istituzione di carceri privati, gestiti da
aziende. Negli Stati Uniti il carcere privato è sempre esistito. Ma oggi,
con l’aumento continuo della popolazione carceraria a causa del progressivo
immiserimento degli strati più deboli della società, e
a fronte delle sempre crescenti ondate di immigrazione dal Sud verso il Nord
del mondo, le prigioni, sia pubbliche che private, negli Stati
Uniti e ora anche in Europa si stanno rivelando vere e proprie miniere di
forza-lavoro. Prendiamo gli Stati Uniti. «Nel
2000, cinque società si dividevano la gestione di 120 stabilimenti di
pena privati per un totale di 120 mila detenuti. Anche se il numero di
imprese che dominano questo mercato si riduce in pratica a due
società: la Correctional Corporation of America e la Wackenhut Corrections
Corporation. La Wackenhut amministra attualmente 11
carceri, in pratica il 22% del mercato dei posti-cella affidati ai
privati; inoltre ne gestisce altre due in Australia, mentre cerca di
penetrare anche sui “mercati” latinoamericano, asiatico ed europeo. Nel 1999, il suo
giro d’affari ammontava a 2,2 miliardi di dollari e
controllava il 55% del mercato penitenziario privato non statunitense. La
Correctional Corporation è invece considerata la pioniera nella
costruzione e nell’amministrazione degli istituti di pena privati; sta
gestendo 21 prigioni, cioè il 51% del mercato interno, soprattutto
negli Stati del Sud (Texas, Tennessee, Florida, New Mexico), dove la
privatizzazione delle carceri si è andata sviluppando a partire dagli
anni Ottanta e oggi rappresenta un vero e proprio settore industriale
con una crescita del 35% l’anno. Ma non solo: oltre ad aver stabilito
rapporti anche con la Gran Bretagna e l’Australia, è disponibile a
spostare le sue “aziende” oltre il confine messicano dove possono essere
impiantate delle autentiche maquilladoras penitenziarie.
Lo Stato dell’Arizona ha in progetto la costruzione di una prigione privata
in Messico, per duemila detenuti chicanos.
Quotata alla borsa di Wall Street, la Correctional Corporation rappresenta la quinta società sul
mercato finanziario newyorkese. Stiamo parlando di due «multinazionali
delle sbarre». (Cucchini 2000, p. 12). In questa
ottica appare chiaro che, se alla detenzione deve accompagnarsi anche il recupero
parziale o totale del carcerato e le sue eventuali cure, il
sistema privato entra in contraddizione con se stesso, poiché «rieducare»
significherebbe perdere potenziale future «forza-lavoro». La realizzazione di supercarceri non
rappresenta, afferma Bauman, la versione ipertecnologica,
l’incarnazione ultima del panopticon di Bentham. Quest’ultimo era
concepito come una casa di lavoro disciplinato quando la mancanza di
manodopera disposta a lavorare veniva considerata il principale
ostacolo all’inserimento di potenziali operai in fabbrica: in sostanza, la
funzione del carcere era costruire «corpi docili» che si sapessero
adeguare ai ritmi del lavoro salariato. Lo scenario attuale dei rapporti di
lavoro è oggi caratterizzato dalla flessibilità e non è più
importante che i lavoratori imparino l’etica «fordista» del lavoro ma che la
dimentichino: «Il lavoro può diventare davvero flessibile solo se i
lavoratori, quelli di oggi e di domani, perdono le abitudini apprese nel
lungo addestramento quotidiano al lavoro, se perdono i turni di ogni
giorno, il posto fisso e la continuità di rapporti tra colleghi;
solo se si astengono dallo sviluppare capacità professionali inerenti al
loro attuale lavoro e rinunciano all’alimentare morbose fantasie sui
diritti e le responsabilità di un lavoro inteso come proprio»
(Bauman 1998, p. 122). I sistemi di giustizia penale cercano
di adeguarsi alle politiche del lavoro; se l’ideologia del panopticon
era l’avviamento al lavoro, i supercarceri odierni rappresentano,
afferma Bauman, le scuole del nulla:
ciò che conta è che i reclusi stiano lì. Lo stato di cose attuali è il
risultato anche dell’annoso e irrisolto dibattito sull’ideologia delle
pene. La questione della riabilitazione dei delinquenti rispetto al passato
suscita più disinteresse che non divergenze di opinioni: magari
criminologi e amministratori penitenziari continueranno a discuterne, ma i
gestori del sistema penale hanno abbandonato ogni fiducia nella
riabilitazione. Secondo i lavori di criminologi come Mathiesen,
Christie e Clemmer sull’inutilità dello strumento carcerario e del
trattamento, l’effetto del carcere è quello di prigionizzare i reclusi,
ossia incoraggiarli ad assumere abitudini nettamente diverse da quelle che
operano fuori dalle mura del carcere, e la prigionizzazione
diviene dunque l’ostacolo maggiore alla riabilitazione e al
reinserimento del delinquente. Un altro fattore giustificativo dello
stato di cose attuali, afferma Bauman, è dovuto al fatto che il
carcere è divenuto un catalizzatore delle ansie e della domanda di
sicurezza che proviene dall’opinione pubblica; le stesse forze politiche
sanno che per vincere le loro contese elettorali devono passare attraverso
le forche caudine delle nevrosi delle masse. Il ruolo del carcere diviene
importante in quanto indirizza le più ampie politiche sulla sicurezza.
Sotto la voce «legge e ordine pubblico » e sotto i demagogici inviti a città
più sicure, si nasconde l’inclinazione a cedere quote della propria libertà
per garantirsi livelli più alti di sicurezza (Bauman 1999). La
spettacolarità della punizione conta molto più della sua efficacia,
che viene saggiata molto raramente e in tempi lunghi, mentre
l’opinione pubblica è generalmente apatica e capace solo di brevi
attenzioni. Perdersi
in città: nuove morfologie urbane Si deve a Marc Augé la coniazione
della parola non-luogo che, al contrario del luogo, è uno spazio
organizzato ma non costituisce riferimento identitario per nessuno. Per dirla in
altre parole, sono dei non-luoghi gli aeroporti, i centri
commerciali, le autostrade, le stazioni, i villaggi turistici. Tutti ci
passano, ma normalmente nessuno ci abita. Augé analizzano le città
postmoderne del Nord del mondo in cui si afferma un processo di
defisicizzazione o virtualizzazione della polis,
delle sue funzioni e dei suoi abitanti. Assistiamo così, secondo Augé, alla massiccia proliferazione
di non-luoghi (caratterizzati dal fatto di non
fornire identità, di non essere
storici, di non essere relazionali) frutto di tre eccessi
tipici dell’età contemporanea (eccesso di informazione, di immagini, di individualizzazione). Alla casa come dimora si oppone il transito;
alla piazza che sorge da un crocevia si oppone lo svincolo (che
serve per evitarsi); al monumento che storicizza e pone un punto di
aggregazione si oppone l’insediamento commerciale periferico; al
viaggiatore si oppone il passeggero. Da qui nuove identità (o meglio non-identità)
costruite sulla contrattualità solitaria,
sullo spaesamento, sul non piuttosto che sul con. È certo, comunque, che all’interno
di una filosofia urbana centrata sulla proliferazione di nonluoghi
cambia di segno anche il conflitto sociale e muta, radicalmente, il
senso della relazione sociale, il contratto di solidarietà tra umani.
Nelle società post-industriali i non-luoghi costituiscono le nuove «località
centrali» che generano nuove periferie e nuovi ghetti.
Magari sfavillanti e lussuosi ma sempre ghetti. Come Disneyland, a cui Augé
ha dedicato del resto un saggio uscito nel 1999. L’esempio
disneyano non è altro che il risultato più estremo della «messa in
finzione», cioè di quel processo di «spettacolarizzazione» che
caratterizza la nostra epoca. Anche i sogni di vacanza in mete
lontane approdano a questa estetica che poi diviene etica del
non-luogo. Non serve, afferma Augé, partire soli all’avventura
fuori da ogni rotta: basterebbe essere coscienti di quello che ci viene
venduto e valutare con un minimo di senso critico. Ma come adeguare
questo «ritrovamento del viaggio» ai quindici giorni o al mese di ferie
annuali? Come ricorda Augé, paradossalmente forse quelli che il reddito condanna
a non allontanarsi troppo sono i più attenti alla
poesia del viaggio. Altri partono invece verso mete esotiche «per far
provvista di sole e di immagini, e si espongono nel migliore dei casi, a
trovare solo ciò che si aspettavano » (Augé 1999, p. 23), si riempiono
di pseudo-ricordi, che nella maggior parte dei casi rimangono
confusi, privi di nome e di sfondo, per un sovraccarico di immagini in un
tempo troppo breve. I lavori di Augé sono
particolarmente significativi perché mettono l’accento su una nuova concezione
della morfologia urbana e sociale. Il concetto di non-luogo è uno degli
strumenti più significativi del mutamento della morfologia urbana
contemporanea, perché precisa il peso reale di quella area
indistinta che viene generalmente definita con i termini di area
metropolitana, hinterland,
banlieue, metropolitan fringe,
che mettono in risalto un aspetto residuale di luogo derivato e marginale. Sono queste le
zone dove si riscontra il numero più elevato di disoccupati e dove si
concentra la popolazione degli immigrati. Queste periferie sono
talvolta considerate modelli di anti-urbanismo, in tutti i vari
significati del termine. La banlieue
rappresenta poco più dell’orrore indicibile: una porzione della città da saltare a piè pari
in aereo o automobile, sperando di non sbagliare l’uscita della freeway,
come in tanti film americani. Del resto, la composizione sociale di
molte periferie rispecchia per- fettamente le nuove componenti
demografiche: gli individui provengono da particolari quartieri, definiti in
via di sviluppo sociale; la maggior parte dei cognomi tradisce
un’origine immigrata (dall’Italia o dall’estero) e la schiacciante
maggioranza di questi immigrati è spesso costituita da giovani tra i 12
e i 32 anni, per un terzo minorenni, in netta controtendenza rispetto alla
popolazione più anziana che compone il centro storico. La teorica dei nonluoghi di Augé è
importante perché mette l’accento su una dimensione ecologica della
criminalità e, forse, su una nuova caratterizzazione
antropologica. In particolare si pone l’enfasi su di una nuova fisionomia urbana
della città, non più polis (centro strutturato di interessi, valori
condivisi, commerci), non più melting pot (aggregato
strutturato retto, almeno nell’ottica parsoniana, da un’integrazione tra i vari
componenti o segmenti sociali), ma coacervo indistinto, luogo dove le identità
più che formarsi si disintegrano e si sciolgono in piccole comunità
di riferimento. La città contemporanea viene vissuta come perdita: di
centro, di identità, di luogo; come spaesamento,
emarginazione, solitudine, sradicamento; come amplificazione del divario tra
l’illusione del movimento e della circolarità e il dato reale
della segregazione e della omologazione; come manifestazione del contrasto
sempre più impressionante tra la povertà del mondo e il
supersviluppo legato all’economia di mercato. All’interno di questa
ottica la città diviene il contenitore della frammentazione
sociale, il luogo dove desideri e paure confliggono tra loro. E la sicurezza diviene la
chiave di volta del riassetto urbano. È Mike Davis a enfatizzare e
studiare il tema dell’ecologia urbana della paura. L’ossessione
ricorrente della propria sicurezza personale e dell’isolamento sociale è
superata solo dal terrore della borghesia di pagare sempre più tasse. A fronte
di una disoccupazione e di un problema della casa che toccano
livelli mai eguagliati dal 1938 nella città di Los Angeles, «tutti
i partiti continuano a ripetere che il bilancio deve essere pareggiato e
l’assistenza ridotta. Con il rifiuto di fare nuovi investimenti pubblici per
riequilibrare le condizioni so - ciali, noi cittadini siamo obbligati
a fare investimenti privati nella sicurezza pubblica. La retorica della riforma
urbana persiste, ma la sostanza è estinta. “Ricostruire L.A.”
significa semplicemente rinforzare il bunker» (Davis 1993, p. 54). Sul tema del bunker
si innesta la metafora del ghetto,
che per Wacquant costituisce una sorta di comunità
delimitata spazialmente e con una forte chiusura sociale. La
vita del ghetto, carcere senza mura, realizzazione pratica
dell’impossibilità di creare una comunità, è contrassegnata da un’accozzaglia
di destini e vite personali che non riescono ad amalgamarsi in
comunità. Uomini e donne in- sicure per esorcizzare l’ansia e
l’insicurezza personale cercano un rifugio comunitario, una comunità
che diviene sinonimo di ambiente sicuro, libero non solo da ladri ma
anche da estranei: «Laddove il ghetto nella sua forma classica
agiva in parte da scudo protettivo contro la brutale esclusione
razziale, l’iperghetto ha perso il proprio ruolo positivo di cuscinetto
collettivo e si è trasformato in una letale macchina di segregazione sociale nuda
e cruda» (Wacquant 1999, p. 319). |
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Città
e politiche sicuritarie: la
rinascita del concetto di classi pericolose La nuova morfologia urbana,
unitamente a un idem sentire de re commune,
ha generato politiche di protezione dalla delinquenza e, soprattutto, dalla delinquenza di
strada: «Il senso di comunità più forte lo si ritrova probabilmente in
quei gruppi che vedono minacciate le basi della loro esistenza
collettiva e che per tale motivo erigono una comunità di identità che
infonde un forte senso di forza e resistenza. Vedendosi incapace di controllare le
relazioni sociali in cui si trova a vivere, la gente riduce il
mondo alla dimensione delle proprie comunità e agisce politicamente su
tale base. Il risultato, fin troppo spesso, è un ossessivo
particolarismo come modo di far fronte o superare la situazione» (Weeks
2000, p. 18). Credo che sul tema della sicurezza
un’importante chiave di lettura sia quella offerta ancora una volta
da Bauman: «La sicurezza, come tutti gli altri aspetti della
vita umana in un mondo sempre più individualizzato e privatizzato è
una questione da risolvere col sistema “fai da te”. La “difesa del
luogo”, vista come condizione necessaria della sicurezza nel suo complesso è
una questione da risolvere a livello di comunità. Laddove lo
Stato ha fallito riuscirà la comunità, la comunità locale, la comunità
“materiale”, fisicamente tangibile, una comunità impersonificata in un t
e r r i t o r i o abitato dai propri membri e da nessun altro (nessuno che
“non faccia parte di noi”), a proiettare il senso di
“sicurezza” che il mondo nel suo complesso cospira palesemente a distruggere?» (Bauman
2003, p. 109). La visione della comunità
caratterizzata dalla chiusura sociale e dall’insicurezza tende oltremodo ad
annullare – secondo l’analisi baumiana che riprende la distinzione
di Alain Touraine (1997) tra multiculturalismo (inteso
come rispetto per le libertà di scelta culturali) e multicomunitarismo
(caratterizzato dalla fedeltà degli individui alle regole dell’appartenenza
comunitaria) – l’idea di tolleranza culturale, o meglio l’idea stessa
di cultura. La cultura diviene «sinonimo di fortezza assediata» (Bauman 2003,
p. 137), cultura è il lin- guaggio che si parla nelle diverse
comunità, distanti e isolate le une dalle altre e quindi si isolano, che
comunicano tra loro solo sporadicamente. L’idea di sicurezza diviene ciò
che separa «noi» da «loro». La «nostra» cultura dalla «loro»
cultura. L’erigere, come afferma Bauman, collettività fortificate in
nome della sicurezza certo non aiuta a ricreare un’idea di società. Ecco che l’accento comunitaristico
sulla sicurezza si indirizza sulle zone di non diritto,
geograficamente concentrate sui quartieri popolari, ribattezzati quartieri «sensibili»,
dove si muove per lo più la piccola delinquenza di strada.
Questa focalizzazione trasmette un’idea precisa di «pericolosità
sociale», che rievoca l’equazione ideologica classi popolari = classi
pericolose in voga alla fine del XIX secolo. La riattivazione di questi modelli
deriva da pseudo-scienze criminologiche, psico-sociologiche e/o poliziesche,
in cui gli spazi di emarginazione diventano «zone di non
diritto», che rimetterebbero in discussione il modello politico
dominante e il suo sistema di valori, per dar vita a enclave
di tipo comunitario o mafioso. Gli adolescenti che abitano in queste zone avrebbero
quindi fatto la «scelta» più facile, razionale e durevole di
un sistema di valori «criminali» contro quello dei valori «convenzionali»,
imperniato sul lavoro. Mescolando fatti tanto eterogenei come il furto
d’auto, il danneggiamento di una cassetta delle lettere, lo
spaccio di droga e la maleducazione, questi discorsi allarmisti ignorano
consapevolmente le cause sociali dei fenomeni. Resuscitano
un’ideologia neoconservatrice centrata sulla presunta incapacità
delle famiglie popolari di fornire un quadro educativo di riferimento ai
loro figli (Bonelli 2001). All’interno di questo panorama i
problemi a carattere sociali scompaiono. La parola «problema»
soprattutto se affiancata all’attributo «sociale» viene progressivamente
ignorata dagli amministratori locali, dalle agende dei politici,
dalla cassa di risonanza dei media e in ultima battuta dalle
preoccupazioni dei cittadini. Come dire, scompare il desiderio
progressista di una prevenzione strutturale e si afferma l’ideologia forte di law
and order: le preoccupazioni socio-culturali o di salute pubblica
sono prese in considerazione solo nella misura in cui concorrono
al mantenimento di una certa forma di pace sociale. L’equazione
«giovani in difficoltà sociali, economiche o professionali» = «controllo
poliziesco» è sempre più in voga, soprattutto se i giovani sono
immigrati. I quartieri «in pericolo » divengono «quartieri pericolosi». L’equazione classi pericolose =
quartieri pericolosi è alla base della cosiddetta dottrina della tolleranza
zero. Il Manhattan Institute, una delle più accreditate think
tank della nuova destra americana, veicolava già nei primi anni Ottanta
la teoria del «vetro rotto», for- mulata da James Q. Wilson e George
Kelling. Secondo questa teoria, mai verificata empiricamente, si
sosteneva che per far rifluire la criminalità urbana è in primo luogo
indispensabile rispondere fermamente, colpo su colpo, ai piccoli disordini
quotidiani e soprattutto alle inciviltà urbane. I due
sostenevano che la criminalità è l’inevitabile risultato del disordine: se una
finestra è rotta e non viene riparata, chi vi passa davanti concluderà che
nessuno se ne preoccupa e che nessuno ha la responsabilità di
provvedere. Ben presto ne verranno rotte molte altre e la sensazione di
anarchia si diffonderà da quell’edificio alla via su cui si
affaccia, dando il segnale che tutto è lecito. In una città, problemi di minore
importanza, come i graffiti, il disordine pubblico e la mendicità
aggressiva, a quanto scrivono i due studiosi, sono l’equivalente
delle finestre rotte, ossia inviti a commettere crimini più gravi. |
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Usata come alibi per placare le paure
delle classi medio-alte (quelle con una maggiore propensione
al voto, almeno nel sistema statunitense), questa tesi nel 1993
si trasformò rapidamente nel cavallo di battaglia vincente di Rudolph
Giuliani nella corsa a sindaco di New York, divenendo
successivamente il cardine per una nuova politica criminale riguardante
l’ordine pubblico. «C’era una assuefazione alle offese quotidiane: usare le
strade come bagni pubblici all’aperto, danneggiare le proprietà
pubbliche, usare qualsiasi spazio disponibile, dai muri ai vagoni della
metropolitana, per le proprie presunte creazioni artistiche, era
un’abitudine collettiva. Così anche i reati più gravi diventavano
un evento con il quale convivere passivamente. Appena eletto, Giuliani
fece uscire dagli uffici tutti i poliziotti della città di cui lui
era il capo. Negli uffici rimasero solo impiegati civili e un numero molto
piccolo di poliziotti-impiegati. Tutti gli altri furono mandati a
pattugliare le strade per rendere visibile la presenza della legge. La legalità
divenne un valore assoluto: le infrazioni minori come sporcare i
muri, orinare agli angoli delle strade, non pagare il biglietto della
metropolitana, parcheggiare ovunque furono represse con la stessa
decisione riservata ai reati gravi» (De Giorgi 2000, p. 34). In cinque anni il budget della
polizia di New York fu aumentato del 40%, raggiungendo la cifra
complessiva di 2,6 miliardi di dollari, un importo superiore di ben quattro
volte agli stanziamenti concessi agli ospedali pubblici, e venne
reclutato un vero e proprio esercito di 12 mila poliziotti, che portò nel
1999 gli effettivi totali a più di 46.000 uomini. Per William Bratton,
il nuovo capo della polizia municipale, a New York il nemico sono
i senzatetto che ai semafori si avvicinano alle automobili per
lavare i vetri, simbolo vergognoso del declino sociale e morale della
città, i piccoli spacciatori di droga, le prostitute, i mendicanti, i
vagabondi, i writer. La «tolleranza zero all’atto pratico si è tradotta in
molestia permanente ai danni dei giovani neri o degli immigrati in strada, in
arresti massicci e spesso abusivi nei quartieri poveri,
nell’intasamento dei tribunali, nella continua crescita della popolazione
sotto chiave e in un clima di aperta sfiducia e ostilità fra la
polizia e i newyorkesi neri o latinos. In questo senso l’appello alla
sicurezza e a città più sicure, e in special modo l’appello a politiche
di tolleranza zero, nasconde in realtà l’interesse neoconservatore
a una drastica riduzione dell’impieno di fondi per le politiche di welfare
e a un inasprimento delle politiche penali e penitenziarie a carattere
repressivo. «Negli Stati Uniti l’apparato carcerario ha
assunto un ruolo centrale nel governo della miseria, al crocevia fra il
mercato del lavoro dequalificato, i ghetti urbani e i servizi sociali
riformati per supportare la disciplina della condizione salariale
desocializzata» (Wacquant 2000, p. 43). Loïc Wacquant riassume la
rivoluzione neoconservatrice degli ultimi 20 anni nella formula «declino dello
Stato economico, diminuzione dello Stato sociale e glorificazione
dello Stato penale». Il preteso liberalismo neoconservatore vuole una
società «libera, ossia liberale e non interventista “in alto”, in
particolare in materia fiscale e per quanto riguarda l’uso della
forza lavoro, e intrusiva e intollerante “in basso”, cioè nei confronti
dei comportamenti pubblici degli appartenenti alle classi subalterne
presi nella morsa della disoccupazione e della precarietà da un lato, del
declino della protezione sociale e dei servizi pubblici dall’altro. È interessante l’analisi di
Bonelli (2001), secondo cui l’evoluzione del paradigma securitario sarebbe
dovuta all’escalation della violenza e della criminalità minorile tra i
giovani dei quartieri popolari. Per tutti gli anni Ottanta e Novanta,
si sono moltiplicate le prese di posizione sul tema del disagio
urbano, della criminalità minorile, del sentimento d’insicurezza, con
uomini politici che si specializzano e costruiscono la propria carriera
sul tema dell’insicurezza. Attraverso la rivendicazione di una sorta di
competenza particolare in materia, contribuiranno a
spoliticizzare a poco a poco un dibattito che, negli anni Settanta, opponeva
ancora una destra garante della «sicurezza» a una sinistra paladina
della «libertà»: politici di ogni sorta, trovandosi d’accordo sulla
natura del problema, sulla diagnosi e sulle soluzioni da apportare, hanno
teso ad annullare le passate divergenze e a produrre un consenso
– a cui i media daranno ampiamente eco nel corso degli anni– sulla
lotta contro forme di criminalità nei confronti delle quali è
possibile intervenire. Nascono in molti paesi europei associazioni di
controllo del crimine di vario genere, dal sistema di vigilanza del
quartiere (neighbourhood watch) e di pattuglia delle strade alle forme
di aiuto e sostegno alle vittime della criminalità. La richiesta
crescente di forze di polizia comunita- ria si spiega con il fatto che queste
permettono di conciliare i desideri apparentemente contraddittori di
sicurezza privata e di aggrega - zione collettiva: la paura del
crimine, a lungo considerata un ostacolo all’azione collettiva perché
provocava un ripiegamento generale sul proprio universo e sulle proprie
paure, diviene, fittiziamente, un motore di integrazione sociale e di
rinnovamento civico: la «comunità » fa sentire la propria voce,
controllando ed escludendo tutti coloro non ritenuti degni o capaci di farne
parte. Il termine comunità diviene concetto
prêt-à-porter, utile a
promuovere indifferentemente la repressione
delle gang di strada, le giurisdizioni «terapeutiche»
(tribunali per crimini di droga, per la violenza coniugale, per i minori), le
pattuglie, la detenzione di massa e le misure alternative. La
flessibilità del concetto di polizia comunitaria viene usata dalle
amministrazioni cittadine per dare risposta contemporaneamente alle richieste più
contraddittorie. Il nuovo paradigma securitario vuole che
più che dalla ridistribuzione, la sicurezza urbana sia garantita
dalla repressione. In molti proclami politici si afferma che non è più
sufficiente pensare al mantenimento dell’ordine come compito esclusivo
della polizia, e che, quindi, quest’ultima debba agire nel quadro
più ampio del governo comunitario. Parole che vengono spesso confermate
dall’entità dei bilanci annuali della polizia
municipale, spesso di gran lunga superiore a quello delle altre istituzioni
cittadine: in questo modo finiscono per convivere allegramente controllo
di polizia e qualità della vita. Possiamo tuttavia interrogarci
sul significato di un’evoluzione sociale e di una politica che mettono
i programmi di polizia comunitaria al centro della vita democratica. Gli
investimenti destinati al mantenimento dell’ordine hanno
portato a un calo dei finanziamenti di programmi di protezione sociale di
tipo redistributivo e di tipo welfaristico. Prendiamo gli
Stati Uniti ad esempio. Man mano che lo Stato stanziava miliardi di
dollari per finanziare la sua mac - china repressiva, ha
contemporaneamente delegato al settore privato le sue reti di servizi sociali e alla
polizia le funzioni di tutore della vita pubblica. D’accordo con
Wacquant ritengo che la promozione della polizia ad agente di
integrazione sociale segna un’evoluzione inquietante verso una società in cui
la diffidenza, il sospetto e la paura sembrano essere le forze
trainanti della politica e della cultura. Così come è concepita – come un
modello di rinnovamento della vita civile, come attuatore della
qualità della vita comunitaria – rappresenta la forma più involuta e perversa di
democrazia. Gli americani, che non vanno più come una volta a
giocare a bowling in gruppo, pattugliano insieme con entusiasmo le
strade dei propri quartieri. Ma è davvero questo il tipo di «comunità»
di cui hanno bisogno? (Klinenberg 2002, p. 11) |
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Strategie
di sopravvivenza: il neotribalismo Le
vecchie categorie interpretative sono tutte saltate. Così, ad
esempio, non
è più possibile pensare in termini di «individuo», un concetto che
per molti aspetti ha rappresentato il perno della modernità, pur
dando adito ad altre definizioni e concettualizzazioni. Allo
stesso modo, la nozione di libertà non è più attuale. Mi sembra infatti
importante sottolineare che, ora come ora, siamo più «pensati»
di quello che noi pensiamo e siamo più «agiti» di quello che
agiamo: questa constatazione definisce la mia concezione di quello che chiamo tribalismo:
porre l’attenzione sull’esistenza di una
dimensione di confusione, di contaminazione… Sempre in questa
direzione, riprendendo la teoria sociologica di Gabriel Tarde,
si può porre l’accento sulle leggi dell’imitazione: un fenomeno che
appare in tutta la sua evidenza nella moda. Ciò che emerge
in tutte le dinamiche sociali e culturali è infatti la consapevolezza che,
intellettualmente parlando, non esisto che nel e attraverso lo
spirito dell’altro, mettendo così in gioco altre categorie rispetto a
quelle tradizionali di individuo e libertà. La caratteristica fondamentale
del pensiero che chiamiamo «comunitario» è che il gruppo
– ad esempio, la famiglia o il piccolo gruppo giovanile – viene
prima dell’individuo. E mi pare di rilevare una sorta di ritorno diffuso
a questa prospettiva. M. Maffesoli «La comunità ci manca perché ci
manca la sicurezza, elemento fondamentale per una vita felice, ma
che il mondo è sempre meno in grado di offrirci e sempre più
riluttante a promettere… l’insicurezza attanaglia tutti noi, immersi come
siamo in un impalpabile e imprevedibile mondo fatto di
liberalizzazione, flessibilità, competitività ed endemica incertezza, ma ciascuno
di noi consuma la propria ansia da solo, vivendola come un
problema individuale, il risultato di fallimenti personali e una sfida
alle doti e capacità individuali » (Bauman 2003, p. V). E ancora: «E
così cerchiamo di trovare rimedio ai disagi dell’incertezza
nella ricerca di sicurezza, vale a dire nell’integrità del nostro corpo e
di tutte le sue estensioni e baluardi: la nostra casa, i nostri beni, il
quartiere in cui viviamo. E nel fare ciò, cresce in noi la diffidenza nei
confronti di quanti ci circondano, e in particolare degli estranei. Gli
estranei sono l’incarnazione stessa dell’insicurezza e di conseguenza
impersonificano l’incertezza che tormenta la nostra vita. Da un certo
punto di vista, bizzarro quanto perverso, la loro presenza è
rinfrancante, perfino, rassicurante: le nostre paure soffuse e frammentate,
difficili da inquadrare e definire, hanno ora un bersaglio concreto su
cui focalizzarsi; ora sappiamo dove cova il pericolo e non è più
necessario attendere a capo chino i colpi che il destino ci
riserva. Finalmente possiamo fare qualcosa. È difficile (e alla fin fine
avvilente) doversi preoccupare di minacce che non possiamo chiamare per nome, e
tantomeno rintuzzare » (Bauman 2003, p. VI). Ritengo che il desiderio di comunità,
d’accordo con Bauman e Maffesoli, rappresenti oggi più di
ieri il motivo principale per il quale siamo costretti a cedere quote
della nostra individualità. In questo senso la voglia di comunità
impegna il nostro io sociale all’interno di micro/meso organizzazioni capaci
di rispondere all’esigenza di fornirci un’identità collettiva
e di porci al riparo dalle contaminazioni di altre comunità (linguistiche,
religiose, sociali ecc.). Numerose inchieste condotte dai media
sui nuovi modi di aggregazione giovanile hanno rilevato che il
desiderio di costituzione di microcollettività giovanili prevale su quello di
inserirsi in collettività più ampie. Non sorprendono neanche
le maggiori e più pressanti richieste di legge e ordine che provengono dal
mondo giovanile, in particolare la renaissance
di atteggiamenti xenofobi da parte di frange non più marginali. La richiesta di
un maggior contenimento del fenomeno migratorio appare in
sintonia con il desiderio dei giovani a uniformarsi in piccole comunità di
riferimento, e con la paura di non rimanere schiacciati da un mondo
e da culture globali, sinonimo di incertezza e insicurezza. Un altro autore che sul tema della
comunità e della sicurezza ha contribuito fortemente è Michel
Maffesoli. L’autore di Il
tempo delle tribù e
di Del nomadismo, che si
autodefinisce un «sociologo del quotidiano », ha iniziato col delineare due
idee fondamentali alla base della sua teoria: da un lato la «conoscenza
ordinaria», rispetto a cui il compito dell’intellettuale è di «messa
in forma», di esplicitazione, di «porre domande»; dall’altro una
sorta di riabilitazione dell’intuizione come mezzo di conoscenza e come
motore della creazione intellettuale, scientifica e artistica. In quest’epoca che molti sociologi
hanno definito «postmoderna » assistiamo infatti a
un’inversione di polarità: da una concezione della tecnica e della scienza come
mezzo di razionalizzazione dell’esistenza, si è giunti a quello che Maffesoli
definisce un «reincantamento del mondo», che, paradossalmente,
avviene proprio grazie alla tecnologia, e in particolare
grazie alla tecnologia digitale: tra i vari esempi che si possono portare a
sostegno di questa tesi forse il più calzante è quello di Guerre
stellari , una storia che, sostanzialmente, ripropone in chiave fantascientifica
le saghe dei cavalieri medievali. Questo processo è il risultato di
una crisi epocale della
razionalità s
c i e n t i f i c a che
ha caratterizzato il XIX e in parte il XX secolo. Secondo Maffesoli, un’ondata di emozionalità
pervade la nostra società: c’è sempre più bisogno di grandi eventi
collettivi, in cui, condividendo emozioni, si instaura una «comunicazione
simbolica» che fonda il legame sociale: dal Gay Pride alle
Olimpiadi, dalle manifestazioni di Seattle alla morte di Lady Diana,
fino alla Love Parade e ai rave party. Naturalmente l’e
m o z i o n a l i t à e i grandi eventi collettivi sono sempre esistiti, ma, mentre nell’epoca
moderna erano stigmatizzati negativamente e nettamente contrapposti alla
tecnologia, adesso entrano in congiunzione con essa, che anzi
contribuisce a stimolarli. La postmodernità sarebbe quindi caratterizzata da una
sorta di sinergia tra tecnologia e arcaismo (in
cui rientrano ovviamente i concetti cari al sociologo francese di neotribalismo e nomadismo
culturale). Al «sociale» inteso come
organizzazione razionale, cui corrisponde una diffusione del sapere verticale,
dall’alto (Stato, istituzioni) al basso, si contrappone così la «socialità»,
ovvero il ritorno dell’immaginario, del ludico, del fantastico,
dell’onirico, del bisogno di «stare insieme», cui corrispondono
forme di comunicazione «orizzontali », come internet (ecco quindi negata
anche l’unitarietà della società, a favore di una struttura reticolare
in cui si intrecciano diversi gruppi). Anche in questo caso la
prospettiva è radicale: non si tratta più di concepire la tecnologia come
progresso, ma di usarla anche per convivere con gli aspetti arcaici
e barbarici che sono in noi, e che vengono non solo accettati ma
addirittura esaltati (si pensi a tatuaggi, al piercing e all’esplosione del
cosiddetto «etnico» nel campo della moda, del design, della
gastronomia e della musica). Secondo il sociologo Michel
Maffesoli, la modernità è defunta: siamo entrati nel tempo
delle tribù e questa tribalizzazione
del mondo non è affatto una moda effimera
venduta da una multinazionale del divertimento. Essa indica in realtà
il «ritorno alla normalità»: le ideologie moderne, che credevano di
poter ridurre la persona a individuo calcolatore, il legame sociale a
contratto razionale e la storia a progresso in marcia, non esercitano
più il loro appeal. Lo spessore degli avvenimenti e della nostra via
quotidiana, contraddice questa ideologia dominante. «Certo», nota
Maffesoli, «si può starsene silenziosi su quel che disturba e non si
capisce. Taluni lo fanno con successo, e spesso accademici,
giornalisti e uomini politici preferiscono discutere o chiacchierare su
argomenti scontati con idee totalmente preconcette. Resta il fatto che la
realtà empirica è lì, inaggirabile, e lascia sbigottiti coloro che non
hanno saputo cambiare idea per tempo» (Maffesoli 1988, p. 57). Per comprendere la realtà della
quale parla Michel Maffesoli, basta guardarsi attorno e porsi una
semplice domanda: qual è il punto comune fra la Love Parade di
Berlino (un milione di persone per le strade ogni anno), i rave
party clandestini, il funerale di Lady D (quattro milioni di «pellegrini»,
800 milioni di telespettatori), la moltiplicazione di sette e nuovi
movimenti religiosi, la vittoria della nazionale francese di calcio nella
finale della Coppa del mondo (il più grande raduno sugli Champs-Élysées
dopo la liberazione di Parigi), il formarsi di villaggi privati che
si occupano da soli della propria sicurezza, l’etnicizzazione dei
quartieri nelle grandi città, la proliferazione delle credenze
parallele (astrologia, divinazioni, saggezze orientali rimodellate), la
disseminazione delle mode musicali e degli stili di abbigliamento, il
ritorno alle comunità parallele nelle case occupate, i sistemi di scambio
locale o le cooperative di agricoltura biologica, la ricorrente ribellione
delle città e delle regioni contro le ultime vestigia dello Stato
centralizzato? Tutti questi fenomeni rimandano, sostiene Maffesoli, a un
modello non moderno, ma arcaico,
di socializzazione: il relazionale prevale sul razionale,
l’affettivo sul cognitivo, il gruppo
sull’individuo, l’immaginario sul calcolo, il locale sul globale. Veniamo al concetto di comunità.
Lo Stato, comunità par
excellence, non è né una collezione di
cittadini che si immedesimano nei princìpi astratti di una repubblica
né una somma di consumatori che calcolano i costi e i benefici
delle proprie azioni. Questo vecchio modello meccanicistico e
contrattualistico ignora la realtà organica del legame sociale: gli individui
isolati esistono soltanto nelle teorie. La vita quotidiana è un movimento
permanente di attrazione e repulsione, di contagio e fusione, di
empatia e prossemia, di simbiosi e metamorfosi: l’individuo non
soltanto eredita e trasmette appartenenze collettive che gli preesistono, ma si
impegna a sua volta in comunità elettive che forgiano la
sua esperienza del mondo. Nasce allora la persona
(che in latino vuol dire «maschera»), che si riveste delle molteplici identità che
definiscono l’esuberanza della vita sociale, la diversità del mondo e il
politeismo dei valori. Se la morale del dover essere è
stata e rimane una delle ossessioni del pensiero moderno, le società
postmoderne si organizzano sempre più spesso attorno all’e
s t e t i c a. Ne sono testimonianza il culto del corpo e la cura della
natura, il successo dello sport e la ricerca dei divertimenti, l’importanza
della moda e la preponderanza delle immagini, la messinscena della
sensibilità e il primato dell’emotività, il gusto degli exploit
e il piacere dei viaggi. Al predominio della regola
che impone un’identità e un comportamento fa dunque seguito la prevalenza dello stile
che consente un’identificazione e una partecipazione. Questo fenomeno
articolato attorno al desiderio e al piacere non si riduce allo
svaccamento edonistico di una generazione ricca che non ha conosciuto la
guerra, come spesso la critica reazionaria deplora: «Lo stile della
vita», sottolinea Maffesoli, «non è una cosa oziosa, perché è
proprio quel che determina il rapporto con gli altri: dalla semplice socievolezza
(cortesia, rituali, gala- teo, prossimità…) alla più
complessa socialità (memoria
collettiva, simbologia, immaginario sociale)». Le tribù
postmoderne non hanno certamente tutte un’immagine positiva, soprattutto da quando i
media, i mercati o i ministeri della cultura hanno pensato di
strumentalizzarne alcune a proprio vantaggio. Quel che più conta è che il
fenomeno della tribalizzazione non sempre esclude la massificazione
alla quale lo si vorrebbe contrapporre. Comunità e masse, insiste anzi
Michel Maffesoli, esistono solo quando condividono immagini,
stili, forme proprie: «Effimere o durature, spregevoli o ammirevoli,
discrete o assordanti, isolate o immense, queste identità
collettive emergenti contribuiscono a formare, per la maggior parte, una
comunità estetica fondata sul gusto, sulla passione, sulla forma,
sull’apparenza, sull’ammirazione. E sul sacrificio dell’individuo al
gruppo. Questa estetica suscita infatti a sua volta un’etica,
cioè una morale “senza obblighi né sanzioni”; senza alcun altro obbligo
all’infuori di quello di aggregarsi, di essere membro del corpo collettivo,
senza altra sanzione all’infuori di quella di essere escluso se cessa
l’interesse (lat. inter-esse)
che mi collega al gruppo» (Maffesoli 1988,
p. 67). Un simile insieme di valori e
attitudini condivisi non ha ovviamente nulla a che vedere con la morale
nel senso in cui la intendeva la modernità: la morale è
universale, applicabile in ogni luogo e in ogni tempo; l’etica invece è
particolare, talvolta momentanea; fonda una comunità e viene elaborata a
partire da un determinato territorio, reale o simbolico che sia. Insomma un
potente desiderio di inventarsi riti e miti per conferire
all’esistenza un senso che vada al di là della chiusura individuale. Il tempo della postmodernità segna
anche una differente concezione del tempo.
È un ritorno al «tempo immobile» degli antichi (il tempo non inteso come «successione
di eventi», chronos ma come «eterno presente», aion),
quell’istante eterno che
Michel Maffesoli descrive in uno dei suoi saggi più
recenti: «In contrasto con un tempo lineare e progressivo che
diventa rapidamente omogeneo ed esteriore, il tempo vissuto
socialmente e individualmente è quello della ripetizione, della circolarità»
(Maffesoli 2000, p. 16). Ne è testimonianza la catastrofe
dell’idea di progresso, che esigeva che il presente fosse interpretato esclusivamente
alla luce di un futuro concepito come «miglioramento» o «ottimizzazione»:
queste belle promesse, sempre tradite, non fanno più
sognare. Gli uomini, incapaci di credere nell’avvenire e spesso
privati del ricordo del passato, vogliono ormai vivere nel presente, accettare
il gioco del mondo, o il mondo come gioco. Maffesoli fa notare
che «la vita come gioco è una sorta di accettazione del mondo così
com’è. Cioè anche di un mondo marchiato dal sigillo
dell’effimero. È tipico del destino integrare e vi- vere l’idea della morte imminente,
dell’incompiutezza e della precarietà di chiunque e di qualunque cosa».
Sebbene la parola sia bandita dalle officine mediali del
divertimento e dalle università statali del decerebramento, è proprio il tragico
a essere di nuovo in opera: lo spirito del tempo ha abbandonato i
piani della provvidenza per ascoltare le muse del destino. Nella città contemporanea, luogo di
solitudine e di anonimato, si manifestano anticorpi e strategie
sociali di sopravvivenza nei confronti della generale omologazione e
dispersione individualistica. Strategie immediate e spontanee che
vedono i giovani in prima linea in questa sperimentazione creativa.
Così alle analisi catastrofiste che pensano a «deserti urbani» è
più realistico sostituire altre interpretazioni, del resto sostenute anche da ricerche
sul campo, per le quali la città è una successione di
territori dove gli individui, in modo più o meno effimero si
radicano, si raccolgono, cercano riparo e sicurezza. E ancora: «Quando parlo
di “etica dell’estetica” è per opporla alla vecchia “morale del
politico”. Io distinguo nettamente tra morale ed etica, tra politica ed
etica. La morale è infatti razionale, universale, viene intesa come
applicabile in ogni luogo e a qualunque tempo. Viceversa, l’etica, come si
evince dalla sua radice etimologica ethos,
è il cemento, il legame nel suo significato più elementare: tiene una comunità così come il
cemento tiene le pietre. Ed è in questa chiave che oggi trionfa il
multiforme, ovvero il «provare/sentire insieme qualcosa» che è poi l’esthesis.
Così l’arte, l’ascoltare una certa musica o, addirittura, guardare
programmi alla televisione o andare allo stadio o a un concerto
sono alcuni aspetti di questo nuovo sentimento sociale
post-razionalistico. In altre parole, oggi si vive in funzione di un gruppo, di una
realtà corale, di una comunità» (Maffesoli 1998, p. 78). Questa rivalorizzazione dello spazio,
del localismo si correla alla diffusione di nuovi ambiti di
socialità, che si qualificano come insiemi più ristretti e circoscritti
rispetto alle tradizionali forme di aggregazione (parrocchia, strutture di partito e
sindacali ecc.). La spazialità urbana risulta oggi tendenzialmente
segnata e attraversata da una pluralità di micro-gruppi,
giovanili ma non solo, che si costituiscono: a partire dal sentimento di
appartenenza, in funzione di un’etica specifica, nel quadro di
un reticolo di comunicazione. Ogni aggregazione ha così un mito,
ovvero una storia che ogni gruppo si racconta, e si costruisce
un proprio rituale. Ovvero un meccanismo, basato sulla reiterazione
di comportamenti ripetitivi e di attenzione alle piccole cose e al
minuscolo, attraverso il quale si sente di partecipare allo spirito
collettivo, alleviando quindi ansie e angosce esistenziali. Ma questi
gruppi, nota Maffesoli, accentuando ciò che è vicino (persone o
luoghi), tendono a chiudersi su di sé. La fedeltà al gruppo e il dovere di
aiuto reciproco induce all’esclusivismo e, in certi casi estremi (quando la
debolezza produce chiusura su se stessi e aggressività, come
nel caso di alcune bande giovanili), alla violenza nei confronti di altri
gruppi considerati antagonisti o semplicemente disturbanti, nonché
all’emarginazione se non eliminazione di essi. Fra questi normalmente
rientrano gli stranieri immigrati, i nomadi, i barboni… «L’intrusione dell’estraneità
– osserva Michel Maffesoli – può fungere da anamnesi:
ricorda a un corpo sociale che tendeva a dimenticarsene come esso sia strutturalmente
eterogeneo; anche se per facilità aveva mostrato una
tendenza a ricondurre tutto all’unità » (Maffesoli 1998, p. 151). In realtà il principio vitale di
ogni realtà è nella molteplicità e la coesione sociale, più che come unità,
va vista invece come unicità, ovvero convivenza di elementi
diversi. Il tema della diversità quindi può essere assunto come filo rosso
per rivisitare la storia generale e le storie specifiche dei vari
territori. Una comunità può quindi interrogarsi sulla capacità ereditata dal passato
di giostrarsi tra separazione e apertura, radicamento e
cosmopolitismo, perché è nella capacità di riuscire ad alternare e a
bilanciare questi due antagonismi, ambedue essenziali, che una comunità
può evolvere e crescere creativamente. Bibliografia Augé M., (1992), Un
etnologo nel metrò, Eleuthèra, Milano. Augé M., (1993), Non-luoghi.
introduzione ad un’antropologia della surmodernità, Eleuthèra, Milano. Augé M., (1999), Disneyland
e altri nonluoghi, Bollati Boringhieri, Torino. Augé M., (1994), Pour
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di comunità, Laterza, Bari. Bonelli L., (2001), La
paura, lucrosa rendita della politica, «Le Monde diplomatique/ il manifesto», febbraio. Christie N., (1997), Il
business penitenziario. La via occidentale al gulag, Elèuthera, Milano. Cucchini, (2000), Stati
Uniti: come si uccide il diritto, «Missione Oggi», Dossier, febbraio. Davis M., (1993), La
città di quarzo, manifestolibri, Roma. De Giorgi A., (2000), Zero
Tolleranza. Strategie e pratiche della società di controllo,
DeriveApprodi, Roma. Gallino L., (2000), Globalizzazione
e disuguaglianze, Laterza, Roma-Bari. Gilling D. (1997), Crime
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della sicurezza», Community
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tempo delle tribù. Il declino dell’individuo, Armando Editore, Roma. Maffesoli M. (1988), La
globalizzazione è una torta alla crema, «Ideazione », intervista di Ivo Germano. Maffesoli M., (2000), L’instant
éternel, Meridiens Anthropos, Paris. Maffesoli M., (2000), Del
Nomadismo. Per una sociologia dell’erranza, Franco Angeli, Milano. Melossi D. (2002), Stato,
controllo sociale, devianza, Bruno Mondadori, Milano. Pavarini M., (1995), Oltre
il carcere: note critiche sui rapporti tra carcere e società civile,
in Martelli A., Zurla P., a cura di, Il
lavoro oltre il carcere , Franco Angeli, Milano. Pavarini M., (1994), Bisogni
di sicurezza e questione criminale, «Rassegna Italiana di Criminologia», n. 4,
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città nell’economia globale, Il Mulino, Bologna. Sherman L.W., (1999), Preventing
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the community safety paradigm: safety, power and success and the
limits of the local», The
British Criminology Conference: Selected Proceedings,
vol. 2, Brodgen, London. Steffensmeier D., Harer M.D. (1991), Did
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Presidency The Effect of an Aging US Population on the Nation’s Crime Rate,
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et vrais problèmes, «Une societè fragmentee? Le multiculturalisme en debat», Paris. Wacquant L., (1998), A
black City within the White; Revisiting America’s Dark Ghetto,
«Black Renaissance», 2. Wacquant L. (1999), How
penal common sense comes to europeans: notes on the translatantic diffusion of the
neoliberal dixa, «European
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d’ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello stato penale nella società
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Ordinaire à Washington, «Le Monde diplomatique » |
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